Il viaggio di una volontaria piemontese in Ucraina

(Articolo pubblicato su Vita diocesana pinerolese)

Parto per l’Ucraina in treno dalla stazione di Przemyśl, cittadina polacca dal nome difficilmente pronunciabile per noi italiani, non distante dal confine. È anche qui che si sono riversati nel 2022 i tanti profughi in fuga da quell’inizio di “operazione speciale”, come vuole che la si chiami Putin (in Russia la parola guerra, in riferimento a ciò che accade in Ucraina, è proibita), quando l’esercito della Federazione russa era penetrato fino alle porte di Kiev. Sempre da qui anche oggi molti ucraini, per lo più donne e bambini, transitano in entrata o in uscita dal loro Paese.

Due giorni prima un pesante attacco missilistico

Risale a due giorni prima l’ultimo pesante attacco missilistico dell’8 luglio che ha colpito varie regioni dell’Ucraina, e in particolare l’ospedale pediatrico Okhmatdyt di Kiev, suscitando ondate di sdegno nella maggior parte dei paesi occidentali. I sentimenti sono tanti e contrastanti: non so bene cosa aspettarmi. L’unico paese sconvolto da una guerra che io avessi visitato fino ad allora era la Bosnia; ma in realtà lì la guerra era finita da 5 anni quando c’ero stata la prima volta, anche se il livello di devastazione generale avrebbe lasciato pensare che il conflitto si fosse esaurito da molto meno tempo. Cosa avrei trovato in Ucraina?

Nel mio viaggio cosa avrei trovato in Ucraina?

Il treno parte, alla frontiera i soliti controlli di routine, ed ecco, senza il tempo quasi di realizzare la cosa, sono in un Paese in guerra. Dal finestrino, finché c’è luce, scorrono distese di campi di grano, di boschi, e poi gli sterminati prati fioriti di girasoli, che forse avevo visto in qualche film. Pochi piccoli villaggi rurali, strade scarsamente asfaltate che mi ricordano alcune aree della Romania. Segni della guerra non ce ne sono. Mi addormento e quando mi sveglio è notte fonda e il treno è fermo nella stazione di Lviv (Leopoli, come la chiamiamo noi in Italia). Sento un rumore continuo di sottofondo che molto presto imparerò a riconoscere. È l’allarme antiaereo. Dura a lungo, forse quasi un’ora, per tutto il tempo in cui il treno sosta, e io non so bene che pensare. Tutti gli altri viaggiatori dormono, la stazione è semibuia, oltre che per il coprifuoco, per i grossi problemi di approvvigionamento energetico che l’Ucraina sta attraversando, a causa dei continui bombardamenti russi, che distruggono le infrastrutture e prima di tutto le centrali; alcune persone però transitano con i bagagli sulle banchine come se nulla fosse. Due fidanzati nell’oscurità si abbracciano, mentre continuano a guardare il cellulare. Forse scrutano una di quelle App cha anche io presto utilizzerò, che segnala il rischio di bombardamenti in corso nelle varie regioni dell’Ucraina. Alla fine la sirena cessa, il treno riparte, e quando mi risveglio sono a Kiev.

Il mio arrivo a Kiev

Con un po’ di stupore trovo una città incredibilmente piena di vita. La stazione è gremita di viaggiatori, fuori il traffico è fitto come in ogni metropoli occidentale, i negozi sono tutti aperti, i marchi internazionali sono ovunque, la gente è affaccendata nel quotidiano andirivieni legato del lavoro e alle incombenze di ogni giorno. Kiev è, all’apparenza, una città normalissima e la guerra sembra molto lontana da qui. Sembra… Ci vuole un po’ di tempo per calarsi nell’atmosfera. Viaggio con un’organizzazione che si chiama MEAN – Movimento Europeo di Azione Nonviolenta. Si è costituita spontaneamente nel tempo dall’incontro di volontari che si sono incontrati sulla via per l’Ucraina, e hanno già compiuto varie missioni. L’obiettivo è aiutare nell’immediato, ma soprattutto lavorare per il futuro, per quando il conflitto finirà, e bisognerà essere pronti a ricostruire tutto, anche la società civile e i rapporti con gli altri Stati. Si incontrano le istituzioni locali per porre le basi per futuri gemellaggi, e si lavora tra tanti progetti anche alla proposta di costituzione di comitati per la Verità e la Riconciliazione, che lavorino a fianco dei tribunali ordinari, per dare voce alle vittime quando il conflitto cesserà; e poi a una proposta di legge da presentare al Parlamento Europeo, per costituire finalmente quei Corpi civili di pace europei, per i quali Alexander Langer si era tanto speso fin dalla guerra di dissoluzione della ex Jugoslavia.

L’accoglienza degli ucraini

Gli ucraini ci accolgono quasi con le lacrime agli occhi, grati anzitutto per il semplice fatto che siamo lì con loro, perché dopo gli ultimi attacchi missilistici mai avrebbero creduto di vederci ancora arrivare. E andiamo in giro per la città: ed eccoli i segni della guerra, i palazzi sventrati dai missili, disseminati nei quartieri, e naturalmente l’ospedale pediatrico Okhmatdyt, specializzato nella cura delle leucemie, bombardato proprio due giorni prima appena. «È stato per errore – dichiarano le autorità russe – noi non colpiamo mai i civili». Dicono sempre così. Eppure in quello stesso giorno hanno colpito altri due ospedali in Ucraina, e nelle ultime settimane non hanno smesso di accanirsi contro stazioni, reti ferroviarie, semplici edifici residenziali, addirittura scuole e parchi gioco. Hanno colpito i civili perfino sui corridoi umanitari che all’inizio del conflitto dovevano portarli in salvo, lontano dai territori occupati. Colpiscono le infrastrutture civili, poi poco dopo colpiscono i soccorritori locali accorsi (sempre per sbaglio, ovviamente); e si accaniscono anche contro le organizzazioni umanitarie internazionali, come dimostra il recente attacco alla ONG svizzera per lo sminamento.

Un popolo che non si arrende mai

Intorno all’ospedale Okhmatdyt sono già tutti all’opera: questo popolo tenacissimo non si arrende mai, e non appena qualcosa viene distrutto, subito si provvede a ricostruirlo, nel più breve tempo possibile. Alcuni reparti dell’ospedale, quelli meno danneggiati, sono già tornati operativi. Mentre il direttore della clinica ci accompagna per mostrarci il cratere e la distruzione provocati dal missile, un giovanissimo paziente esce dall’ospedale accompagnato dalla madre… Deve vincere una doppia sfida: sopravvivere alla malattia e sopravvivere alla guerra. Davanti all’ospedale una volontaria sta estirpando ciò che resta dell’aiuola bruciacchiata, ma una fila di vasetti fioriti è già pronta per essere trapiantata, è il segno della vita che non si arrende, della bellezza e della speranza contro la bruttura e la ferocia.

A Kiev tutto sembra continuare come sempre: a nulla valgono gli allarmi antiaerei, che si susseguono di nuovo frequentemente da un po’ di tempo anche nella capitale, largamente ignorati da gran parte della popolazione, che continua a fare esattamente ciò che stava facendo, mentre noi ci rifugiamo nella profonda metropolitana in attesa che la sirena smetta di suonare. Le strade sono piene di vita, i ristoranti continuano a servire cibo, le ragazze e le donne sono bellissime, alla moda, truccate e con la piega perfetta; la sera fino al coprifuoco i giovani stanno in giro, c’è anche chi canta e chi balla per strada. È l’urlo degli ucraini che non si arrendono all’aggressore, che non ci stanno a farsi spianare, a farsi distruggere da chi fino a poco prima li chiamava fratelli, e invece da un giorno all’altro li ha attaccati. Vanno avanti nonostante tutto, nonostante le interruzioni frequentissime di corrente che minerebbero la voglia di fare e la pazienza di chiunque: i rumorosi e puzzolenti generatori diesel lavorano in ogni angolo a tutto spiano, perché non ci si può fermare, non ci si può arrendere. Non si arrendono nemmeno a Kharkiv, ci racconta un’amica ucraina, dove nonostante l’incessante fuoco nemico ininterrotto da molti mesi, continuano a lavorare, a produrre, a ricostruire, e a piantare fiori nelle aiuole e sui balconi.

Quanto può durare ancora la guerra?

Quanto può durare ancora questa guerra? Quanto può resistere l’Ucraina? Ora, con i 37 gradi estivi si agogna il fresco e si rimpiange l’aria condizionata, ma quando arriverà l’inverno la mancanza di corrente significherà anche mancanza di riscaldamento. L’economia ucraina tenta di resistere al collasso, in parte grazie agli aiuti esteri, in parte con tutte le forze intrinseche che riesce a trovare: si delocalizza, si sposta la produzione da est a ovest, nelle piccole officine di campagna più sicure, addirittura sottoterra. Ma gli uomini in giro sono pochi, la maggior parte al fronte, ormai da troppo tempo e senza ricambio. La popolazione ucraina era una popolazione tendenzialmente anziana già prima della guerra, e proprio gli anziani sono, tanto più ora, un anello debole; le pensioni basse non permettono loro di sopravvivere altrove, e quindi restano pervicacemente nelle loro case anche quando si trovano vicino al fronte, anche quando quella del vicino, o perfino la propria, viene bombardata, perché non saprebbero dove altro andare.

La ricostruzione dei giardinii di Kiev dopo i bombardamenti
Le aiuole di Kiev dopo i bombardamenti
Un conflitto moderno

Questa guerra è incredibilmente moderna, e al contempo arcaica. Accanto alle armi sofisticate e all’avanguardia, come i droni e i missili ipersonici, vengono rispolverati vecchi tank sovietici, e in alcune zone il conflitto ha ormai acquisito forme novecentesche, con i due schieramenti impantanati in una specie di guerra di trincea, nella quale avanzare di pochi chilometri ha un costo elevatissimo e inaccettabile di vite umane in entrambi gli schieramenti (perché anche se le stime ufficiali della Federazione russa sono sempre sottodimensionate, ormai appare chiaro che sono almeno 500.000 i soldati russi morti dall’inizio del conflitto, e non si contano i feriti e gli invalidi). E tuttavia è chiaro che lo scopo dell’invasore è stremare il nemico ucraino nazista, come viene definito, giorno dopo giorno, radendo al suolo fino all’ultima casa del territorio di cui vuole appropriarsi, per poi rimpiazzare la popolazione e ricostruire a proprio piacimento. È il “modello Grozny”, come è stato battezzato, già efficacemente riproposto anche ad AleppoUbi solitudinem faciunt, pacem appellant, avrebbe commentato Tacito. Fanno il deserto, e lo chiamano pace.

«L’Europa muore o rinasce a Sarajevo», scriveva Alexander Langer nel 1995 a Tuzla: quell’Europa è rinata forse solo a metà, perché come per la guerra nei Balcani appare debole e impotente di fronte a questo conflitto che si consuma proprio nel suo cuore. Impotente di fronte all’assedio di Mariupol’ come durante l’assedio di Sarajevo, impotente di fronte al genocidio di Sebrenica come sembra esserlo di fronte al lento e forse più silenzioso genocidio ucraino che si sta verificando nei territori occupati. Impotente, o forse semplicemente non abbastanza coraggiosa nel difendere un Paese che con la rivoluzione di Maidan nel 2014 ha espresso chiaramente la sua volontà – quella che Putin non può riconoscere e non vuole accettare – di stare con l’Unione Europea.

La preghiera in piazza Sofia a Kiev

Nel pomeriggio dell’11 luglio in Piazza Santa Sofia a Kiev il MEAN ha organizzato un incontro di preghiera interconfessionale per la pace, trasmesso in streaming anche in varie piazze italiane: hanno partecipato tutte le confessioni religiose della città, cattolici, ortodossi, evangelici, ebrei e musulmani. Una preghiera comune, per la pace, ma con un messaggio chiaro, condiviso da tutti: la pace può arrivare solo se l’aggressore smette di aggredire, perché porgere l’altra guancia non può voler dire lasciarsi massacrare impunemente. E non ci può essere perdono per chi non riconosce le proprie responsabilità e non sa fermarsi e chiedere scusa.

Intanto i sondaggi in Italia e in Europa parlano chiaro, parlano di una stanchezza generalizzata per il conflitto in Ucraina, che si concretizza nel desiderio diffuso di non inviare più armi in aiuto e, in un qualche modo, far cessare la guerra anche attraverso la resa dell’Ucraina. La propaganda russa fa i suoi proseliti anche in occidente e dilagano le fake news diffuse e velocità ipersoniche (come quelle dei missili) dai social; in fondo se è andata così vorrà pur dire che in un qualche modo se la sono cercata gli ucraini, e Putin avrà anche le sue ragioni. «In guerra la prima vittima è la verità», pare avesse già sentenziato Eschilo.

L’Europa muore o rinasce oggi in Ucraina: perché se l’Europa non riesce a far valere il diritto internazionale in questa circostanza, non riesce a far nulla per contenere gli attacchi indiscriminati alla popolazione civile, l’uso di mine e munizioni a grappolo, la detenzione arbitraria e le sparizioni forzate, la tortura e ogni altra forma di maltrattamento e di violazione dei diritti dei prigionieri di guerra, se non riesce a garantire nemmeno i principali e più banali diritti umani a una popolazione aggredita proprio perché ha scelto l’Europa, ha ancora senso questa Europa?

Irene Caligaris – Vita diocesana pinerolese