Galvagno: il ruolo dei laici nella chiesa e nella società

ALBA Nel corso della Settimana della comunicazione, celebrata nella diocesi di Alba, il professor Battista Galvagno, il 30 maggio scorso ha tenuto una conferenza su “Il ruolo del laico cristiano nella comunità ecclesiale e nella società civile. Quali relazioni?”. Del suo intervento nella sala Don Alberione di piazza San Paolo 14, pubblichiamo il testo.

Settimana della comunicazione 2019

Polis – communities – comunità

Il ruolo del laico cristiano nell’odierna polis

 Premesse.

 

  1. L’ora dei laici? Parto da una tesi di don Bussi. Nel corso dei secoli, la chiesa si è retta su una forza predominante: nel Medio Evo tali sono stati gli ordini religiosi (Benedettini, Francescani, Domenicani…); nell’epoca moderna è stato fondamentale il ruolo del clero secolare, formato nei seminari. Oggi forse è arrivata l’ora dei laici, sdoganati dal Concilio Vaticano II

 

  1. Una teologia fatta da laici. Il pensiero sul laicato, in campo teologico ha avuto per secoli la sua sorgente principale nei monasteri, nei chiostri, nei centri di contemplazione, nelle scuole di teologia. Una teologia laicale sul laicato, scritta da persone che vivono nel mondo, da persone abituate e misurarsi da pari a pari con non credenti sui problemi della storia, da padri e madri di famiglia sta muovendo appena i primi passi, sull’onda lunga del Concilio e di alcuni profeti del Vaticano II, tra cui vorrei citare due nomi su tutti: Giuseppe Lazzati e Vittorio Bachelet. Ricordiamo, di Bachelet, la presa di posizione emblematica, di fronte all’amico Montini, diventato Papa Paolo VI. “Obbedienti, ma in piedi”! Questo è anche lo spirito di questa riflessione: una riflessione libera, con un linguaggio forse un po’ nuovo, senza paura di prendere posizione, su temi su cui non ci sono vincoli dogmatici.

 

  1. Bibbia e giornale. Una riflessione sul tema dei laici deve rispondere alla sfida di Karl Bart: “Per fare teologia bisogna avere sempre in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale”. Di questi tempi però non basta aprire i giornali, bisogna lasciare spazio alla forza di verità della realtà stessa. Noi non siamo padroni della realtà, né come persone di fede, né come popolo, come movimento di opinione, perché la scienza non è democratica. Se un tempo era la teologia a tenere in poco i dati di fatto, oggi, nel mondo della post-verità questo è diventato pane quotidiano. Imparare a ragionare sui dati di fatto e aiutare il prossimo a fare altrettanto è un gesto di carità secolare, laicale.

 

  1. Teologia del gorgo”. Fare i conti con la realtà è cosa difficilissima perché siamo in un cambiamento d’epoca e non siamo ancora fuori dal guado, anzi siamo immersi in un vortice burrascoso di eventi. In una situazione del genere – in un vortice, in un gorgo! – non è facile individuare la direzione di marcia della storia. Proviamo tuttavia a scattare alcune istantanee della città, concentrando la nostra attenzione sui tratti caratteristici della nuova antropologia urbana. Proviamo insomma a fare i conti con la realtà.

 Per un ritratto impressionista della nuova polis

Partiamo allora dal “giornale”, anzi da una prima foto della odierna polis. Ricordiamo che per secoli, la città è stata il simbolo del progresso, l’affrancamento dalla schiavitù della vita rurale, il gradino più alto della scala evolutiva: vita nomade, allevamento, agricoltura, industria, ossia vita in città. Anche nei nostri paesi, nel secondo dopoguerra, il sogno era andare ad abitare in città. Oggi la città sembra diventata il luogo della crisi, dei conflitti, dello stress, della violenza, un luogo da cui fuggire. Paradigmatico il film di fantascienza del 1997: Fuga da New York. Consapevole che questo stato d’animo condiziona ogni tentativo di leggere le novità della polis ho scelto quattro parole: la dilatazione dello spazio, pianura indifferenziata, multiculturalità, accelerazione del tempo.

 

  1. La dilatazione dello spazio. La città assomiglia a un buco nero: ingloba, aggroviglia, trattiene tutto dentro di sé, non restituisce nulla. Cresce, indefinitamente, inglobando le periferie, il contado, i paesi confinanti, raggiungendo dimensioni inimmaginabili: una classifica accreditata vede in testa Shangai (Cina) con 27 milioni di abitanti, seguita da Pechino con 21,5, da Logos (Nigeria) con 21, da Nuova Delhi con 16… Istanbul con 15 milioni è al sesto posto, Tokyo con 13 all’ottavo. La prima città europea, Mosca, con 12 milioni è all’undicesimo posto, Londra e New York con 8 milioni al diciannovesimo e ventesimo posto. Per trovare la prima città italiana, Roma, con i suoi 2,8 milioni di abitanti, dobbiamo scendere fino al settantunesimo posto! Secondo i dati e le proiezioni ONU, oggi più della metà della popolazione mondiale (4,2 miliardi di persone, pari 55%) vive in città; ma la percentuale è destinata a salire: nel 2050 a vivere in città saranno il 68% degli abitanti del pianeta. Queste megalopoli sono realtà impossibili da fotografare, come fino a poco fa si pensava fossero i buchi neri. La pubblicazione, poche settimane fa, della prima fotografia di un buco nero ci autorizza a proseguire nel tentativo di inquadrare le novità delle moderne poleis.

 

  1. Una città-pianura. La metafora della pianura è stata usata da due studiosi italiani, Marco Marzano e Nadia Urbinati, nel loro saggio La società orizzontale. Liberi senza padri (Feltrinelli, 2017). Nella pianura non svetta nessun picco: all’orizzonte non si scorge nessuna Acropoli con i suoi templi, i palazzi nascondono anche i campanili. Come esempio prendiamo la città di Napoli. Chi sale con la funicolare al castello di sant’Elmo e osserva tutta la città dal punto più alto, vede non solo Spaccanapoli, l’intreccio delle vie, ma anche le cupole delle chiese. Se scende in basso e comincia a camminare tra i vicoli, queste cose non le vede più. Si perde l’orizzonte e si comincia a vagare in un labirinto di strade tutte uguali. Nella pianura non è facile né immediato trovare punti di riferimento. Se poi si va in periferia è tutto un susseguirsi di aree anonime, affollate da edifici concepiti come alveari allo scopo di immagazzinare il numero maggiore di persone. Quasi impossibile trovare e proporre punti di orientamento e di riferimento. Può scattare facilmente la sensazione di panico, la ricerca affannata di informazioni: il cosiddetto “panico da formicaio”.

 

  1. Città multiculturali. Una terza caratteristica delle poleis è la multiculturalità. Una bella istantanea ce l’ha offerta Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium, al n. 72-74: “Nuove culture continuano a generarsi in queste enormi geografie umane dove il cristiano non suole più essere promotore o generatore di senso, ma riceve da esse altri linguaggi, simboli, messaggi e paradigmi che offrono nuovi orientamenti di vita, spesso in contrasto con il Vangelo di Gesù. Una cultura inedita palpita e si progetta nella città […] Non bisogna dimenticare che la città è un ambito multiculturale… Gruppi di persone si costituiscono in nuovi settori umani, in territori culturali, in città invisibili. Svariate forme culturali convivono di fatto, ma esercitano molte volte pratiche di disgregazione e di violenza. La chiesa è chiamata a porsi in servizio di un dialogo difficile”. La sfida è imparare a gestire la complessità: prima capire, poi coniugare molteplici visioni del mondo, di tipo religioso e non religioso. Uno degli ultimi discorsi da cardinale di Bergoglio, il 16 ottobre 2010 aveva come titolo Noi come cittadini, noi come popolo: spiegava che essere cittadini significa vivere, avere il diritto di abitare in un determinato territorio (“il diritto di cittadinanza”); essere popolo significa condividere valori, avere lo stesso “mondo di vita”. Cosa impossibile a realizzarsi in realtà di 5-10-20 milioni di persone. Come configurare allora la vita di relazione, senza un tessuto di valori condivisi? Come reagire alla naturale paura scatenata dalla diversità?

 

  1. L’accelerazione del tempo. La quarta faccia della polis attuale è la velocità dei processi: il gorgo, in cui siamo immersi, gira vorticosamente su se stesso. Anche qui propongo una istantanea, di Duilio Albarello, A misura d’uomo. La salvezza per la città (Messaggero, Padova, 2019): “Non esiste alcuna identità innata e sostanziale, sempre uguale a se stessa nello spazio e nel tempo, men che meno quando si tratta di popoli e di civiltà. L’identità si forgia senza sosta, nel dialogo con l’alterità… La città richiede di essere concepita come luogo dinamico e in continua mutazione, dove ciascuno ha diritto di poter configurare il proprio modo di vivere” (p. 19). Il record della velocità si ha nel campo della comunicazione: le informazioni viaggiano, praticamente incontrollate, alla velocità delle nuove fibre web: un sapere sconfinato, alla portata di tutti e di proprietà di nessuno. È interessante notare l’evoluzione del “patrimonio culturale”, custodito un tempo nella memoria delle persone (di qui il detto: “Quando muore un anziano, fa in fumo una biblioteca!”), poi nelle biblioteche di pergamene e di libri, oggi nei siti web collocati nessuno sa dove. Questo sapere incontrollato chiede non tanto la nostra conoscenza, quanto il nostro assenso. Non importa se hai capito; conta il like: “Il like è l’amen digitale. Mentre clicchiamo like, ci sottomettiamo al rapporto di dominio. Lo smartphone è un confessionale mobile; Facebook è la chiesa, l’adunanza globale digitale” (Ziccardi, Tecnologie per il potere, Cortina editore, Milano, 2019, p. 22). In questo contesto dinamico i confini sono “soglie”, ossia zone di transizione. Questo a tutti i livelli: pensiamo solo, per rimanere nell’attualità, alla volatilità dei consensi politici o alla pluri-collocazione religiosa o all’abbandono della pratica religiosa stessa!

 

Umanizzare la polis: le urgenze del presente

 

  Come cittadini del nostro tempo e come cristiani non possiamo isolarci dal mondo. La città non è luogo perdizione, ma ambiente di vita e luogo in cui accogliere la salvezza. L’agire salvifico di Dio non è limitato alla sfera spirituale o individuale, ma tocca anche la socialità delle persone e gli ambienti di vita. E non è che Dio prediliga la pastorizia o la pesca: sta bene con gli uomini e basta! Secondo la narrazione biblica, da almeno tremila anni i credenti nel Dio di Abramo si confrontano con la realtà della città. “La città – scrive Enzo Bianchi – porta sempre il segno dell’ambiguità e il giudizio su di essa oscilla tra la condanna della città violenta e omicida e l’invocazione della città della pace, della città futura, che sembra discendere solo come dono dall’alto”. Nella Bibbia l’avventura dell’umanità comincia nel giardino e finisce nella città. Certo ci sono città “perdute” come Enoc, edificata da Caino, Sodoma e Babilonia, ma c’è anche la Gerusalemme terrena icona e promessa della Gerusalemme celeste. C’è la città che uccide i profeti come Gerusalemme o che rifiuta il messaggio della croce come Atene, ma ci sono anche città che lo accolgono come Tessalonica e Corinto. Ma soprattutto la città può anche convertirsi, come vediamo nel caso di Ninive e soprattutto di Roma, a cui Paolo indirizza la sua lettera più importante.

Anche le moderne città hanno bisogno di una salvezza che vorrei tradurre in 4 parole che identificano altrettanti compiti per noi laici: nuova saggezza urbana, fraternità eccedente, umanesimo dei volti e mistica degli occhi aperti.

 

  1. Nuova saggezza urbana e vangelo. La sapienza è dono dello Spirito; la saggezza nasce dal basso. L’urgente necessità di una nuova saggezza urbana è la tesi sviluppata da Richard Sennet, Costruire e abitare, (Feltrinelli 2018). La nuova saggezza urbana non è solo una maschera di cortesia nei rapporti interpersonali, ma è l’acquisizione di uno status di “cittadino competente”, capace di apertura collaborativa agli altri, capace di gestire la complessità. Questo non si riduce ad un uso ottimale della tecnologia. I dispositivi tecnologici possono essere infatti usati per ridurre la capacità decisionale dei cittadini o per coinvolgerli attivamente nelle scelte. Ma non bastano a garantire il recupero della qualità della vita. Non è nemmeno questione di dimensioni: infatti non è scontato che nelle città piccole o grandi si riesca a vivere un’esistenza pienamente umana. L’approdo ad una saggezza collettiva è un processo lungo e complesso, che chiama in causa soprattutto la catena educativa. Questo può essere il terreno di incontro con il vangelo.

Questo bisogno di saggezza nuova e di senso della vita può incontrarsi con la proposta di vita di Gesù: una parola capace di offrire spunti di riflessione e di dare senso al vivere, inserendosi nella sfera delle relazioni. Nessuna religione – nemmeno il cristianesimo – può infatti imporsi come punto di riferimento egemonico di 10-20 milioni di persone, ma neanche di mille-duemila. Riuscire a presentare il messaggio cristiano come proposta di uno stile di vita da cui dipendono la giustizia e la convivenza civile, far riscoprire la narrazione biblica come scuola di umanità sarebbero passi essenziali di una proposta di salvezza per la città. Cosa propone il vangelo? Oltre alla rivelazione-promessa di una salvezza che viene dall’alto, contiene anche indicazioni per vivere nella storia.

 

  1. Fraternità moderata e fraternità eccedente. La proposta di R. Sennet è quella di una “fraternità moderata”, che non si basa tanto sulla natura e su rapporti di parentela sempre più improbabili, vista la scomparsa prima della famiglia patriarcale, poi della famiglia tout court e quindi della fratellanza biologica, ma su pratiche dialogiche che nascono dal basso, cercando di comporre diversi registri linguistici. La fraternità moderata è la capacità di vivere come uno tra i molti, in un mondo che non rispecchia solo se stesso, con una pluralità di visioni che devono convivere. Il “di più” che il cristianesimo ha da offrire è il modello di una fraternità eccedente, che rende desiderabile e buono il legame tra le persone. Il cristianesimo è un’esperienza di vita: “l’esperienza di una relazione con Dio attraverso Gesù Cristo che coinvolge il credente in ogni dimensione della sua umanità, che lo spinge ad agire evangelicamente nel mondo a beneficio di tutti. Esige di immaginare una fede che non trovi nella comunità ecclesiale un nido protettivo in cui rifugiarsi o una cittadella fortificata in cui difendersi, ma una rete di relazioni che accompagni e abiliti a testimoniare la buona notizia del Dio di Gesù a chiunque, senza esclusioni” (Albarello, o.c. p. 137). Vivere la fraternità è già vangelo all’opera. L’esempio forse più alto tra quelli apparsi di recente è il documento sulla fratellanza di Abu Dhabi.

 

  1. Umanesimo dei volti e accoglienza del prossimo: è l’antitesi al dramma dell’anonimato tipico della “folla” delle città, analizzato e denunciato da Heidegger, con la celebre distinzione tra esistenza autentica e inautentica. Esistenza non autentica è quella in cui il Da-sein (l’uomo) cede sotto la tirannia dell’anonimo “si” (si dice, si fa…). Esistenza autentica è quella propria dell’uomo che si sottrae alla tirannia del “si” e accetta se stesso, la propria individualità il proprio limite, anche la morte, e in questa veste si relaziona con gli altri. Ma con quanti volti posso relazionarmi? Oltre un certo numero, scatta la solitudine: il dramma dell’uomo solo in mezzo a una folla anonima. Due vie di uscita da questa situazione, proposte dalla comunità cristiana. In primo luogo, la scelta della comunità primitiva: piccole comunità, a dimensione poco più che familiare, con rapporti interpersonali significativi e stretti: sono state la culla dell’evangelizzazione. Ancora più impegnativa la proposta di Gesù: considerare prossimo chi, in quel momento, ha bisogno di te. Alla parabola del buon samaritano non c’è nulla da aggiungere se non: “Va e fa anche tu lo stesso”!

 

  1. Mistica degli occhi aperti, capace di scoprire Dio presente in ogni essere umano. L’interiorità delle persone, la loro coscienza è la dimora di Dio sulla terra: ecco perché Gesù non ha avviato la costruzione di nessun tempio e l’autore dell’Apocalisse, contemplando la città futura, dichiara: “In essa non vidi alcun tempio” (Ap 21,22). Nelle moderne città questo comincia a realizzarsi: la chiesa-edificio non ha più una posizione centrale; edifici ben più alti la nascondono. Può essere l’occasione per riscoprire che la dimora preferita di Dio sono le persone vive: lì va cercato; lì va incontrato. Mistica dagli occhi aperti è stata quella di Etty Hillesum, capace di vedere Dio nel profondo del cuore di ogni uomo, una volta rimosso il fango che lo nascondeva. Tutto l’opposto della cultura che classifica e demonizza le persone allora per la razza, oggi più semplicemente per la provenienza o il colore della pelle. La “mistica degli occhi aperti” – ben diversa dalla mistica degli occhi chiusi e dalla mistica dei paraocchi – è espressione usata da J.B. Metz, per indicare la spiritualità propria di chi non appende e non bacia crocifissi, ma sa scorgere la folla dei “crocifissi” presenti nel mondo e magari anche vicino a lui, di chi sa “cercare le tracce di Dio nel volto degli uomini sofferenti, per dare al loro grido un ricordo e al loro tempo un termine” (Memoria passionis, Queriniana, 2009, p. 132).

 

Piste operative

 

  1. Minoranza, non setta. Accettare di essere minoranza, ma facendo attenzione a non acquisire la mentalità della setta, del gruppo chiuso che possiede la verità, che conosce la soluzione di tutto. La setta si rafforza con la contrapposizione e con lo scontro: questo garantisce identità forte e magari anche successo, grazie all’incantesimo dell’amnesia nei confronti dei drammi della storia. I drammi vengono minimizzati, nascosti, negati, magari chiamando in causa Dio. Ecco allora la necessità di riformulare il discorso su Dio, solidale con la sofferenza dell’innocente, della vittima dell’ingiustizia. Essere minoranza è essere sale e lievito, operando non per promuovere se stessi, il proprio gruppo, la propria parte, ma cercando il bene comune. Essere minoranza è sforzo per essere un “balsamo per ogni ferita” (Etty Hillesum).
  2. Lotta contro la paura, che è come un tarlo che va sempre più nel profondo. Come attestato nella recente tornata elettorale, certi tarli lavorano in profondità e non si possono contrastare con un’azione di superficie. Ma la paura, dice il proverbio, è fatta di niente. Per questo, l’alternativa alla paura è la concretezza, che deriva da cum-crescere, ossia crescere insieme, rimettere insieme, ricomporre ciò che è stato frantumato. Ma questo implica un ripensamento radicale dei rapporti umani, fino a riscoprire e riconoscere la dimensione di interdipendenza e di dono che sta alla base della nostra vita: ognuno di noi, come teorizzato da Marion in Credere per vedere, è portatore di un debito invisibile: noi non siamo all’origine di noi stessi, ma dobbiamo ad altri il nostro essere al mondo. Impostare il nostro rapporto con gli altri sulla paura è dimenticare che noi dipendiamo dagli altri, che ci salviamo o affondiamo insieme. L’esempio più chiaro è quello del barcone-gommone in mare: l’unico modo per non farlo affondare, proprio quando si avvicina la nave di soccorso è collaborare per tenerlo in equilibrio.

 

  1. La forza umanizzante della cultura. Come scrisse Marguerite Yourcenar, “Durante l’inverno dello spirito bisogna erigere biblioteche”. Le moderne megalopoli registrano non solo dell’eclissi del sacro, ma anche della cultura. C’è più di un dubbio circa il fatto che le moderne biblioteche digitali siano in grado di contrastare l’inverno dello spirito: si può avere il computer o il sito web pieno zeppo di dati e la mente vuota. Ma oggi la cultura ha un nemico in più: le fake news che hanno nel web il loro regno e la post-verità che è l’inflazione della verità, frammentata in infiniti punti di vista, inverificabili. L’informazione è sempre più fango da gettare sugli altri e negli occhi, ma nel fango non cresce nulla e sul fango non si costruisce nulla, nemmeno una catapecchia. Una società costruita sul fango è una società senza fondamenta. Finito irrimediabilmente o certo rinviato a tempo indeterminato il tempo in cui la Chiesa era paladina della verità tocca a noi laici ricostruire un tessuto culturale forte, capace di reggere la vita. Questo non può prescindere da una cultura profonda, come le fondamenta di una casa, che devono poggiare su un terreno solido e profondo.

 

  1. Il Cantus firmus. Nei tempi difficili è fondamentale garantire il Cantus firmus per resistere alla disumanizzazione. Questa curiosa e inconsueta immagine compare in una delle lettere dal carcere di D. Bonoeffer. Il teologo e martire tedesco, vittima del nazismo, sosteneva che nei momenti di crisi, in cui tutti urlano dando vita ad un coro sempre più cacofonico, è essenziale che qualcuno sia fedele nel proporre il Cantus firmus, il motivo portante, oggi diremmo la base musicale. Egli assegnava il compito di garantire il Cantus firmus, ossia la linea melodica portante ai religiosi. Credo che oggi altri, soprattutto laici debbano entrare nel coro. Preti e religiosi non ce la fanno più a garantire la forza corale necessaria. In molte realtà semplicemente non ci sono più: non c’è più nessuno che “canti”. È compito del laicato credente garantire a tutta la comunità questa base umana ed ecclesiale di riferimento.

Certo sono preziosi, forse essenziali per smuovere le coscienze, i gesti profetici di disobbedienza civile, come quello di Mons. Krajewscki a Roma, ma non bastano a cambiare le cose. Una città ha bisogno di qualcuno che con i nervi saldi tenga la barra diritta, che lavori per garantire quella base musicale portante che è la giustizia, fonte e culmine delle virtù civili. Senza giustizia non si va da nessuna parte. Contro le stonature dei delinquenti e degli agitatori di popolo, la giustizia è il Cantus firmus: ha sconfitto anche il nazismo: figuriamoci se non avrà la meglio sui nostrani fascismi da salotto televisivo o virtuale.